Rimirando e ammirando ancora una volta i quadri qui riprodotti di Adele Levi detta Lelle coi soggetti e temi che le sono propri, la collina di Alassio, i suoi alberi, le nature morte,gli scorci della grande villa di famiglia dominante l'azzurro del mare, mi tornano alla mente mille ricordi e impressioni dell'infanzia. Mi rivedo giocare con Guido suo figlio, bambino nato tre mesi prima di me, lui ed io entrambi figli di due Adele molto amiche, tutte e due bionde,tutte e due pianiste ed abili pittrici ad olio: trascorrevano, vicine di casa, l'estate in una Alassio ormai scomparsa perché oggi tanto mutata e dimentica dei suoi incanti.

Lelle Levi non so quando trovasse il tempo per dipingere: al contrario del fratello Carlo era schiva e discreta, sempre presa dalle faccende domestiche di una famiglia vasta usa ad accogliere molti ospiti durante le vacanze estive. Non so proprio, ripeto, quando trovasse il tempo per dipingere eppure la sua innegabile bravura, testimone di un innato e fecondo talento che le incombenze e gli affanni della sua vita di sposa e madre non riuscirono certo a soffocare, ma sfumarono purtroppo assai l'importanza degli evidenti meriti nel corso del tempo. E qui dovrei, per onestà intellettuale e sincero omaggio di uomo, rivolgere almeno un pensiero alle tante, troppe donne invisibili e nell'estetica che sacrificarono virtù e genio, nate donne di valore in un mondo dominato dal prepotente potere degli uomini. Penso a Marianne Mozart, abilissima pianista in ombra colpevole rispetto al fratello, a scrittrici costrette a celarsi dietro pseudonimi maschili, pittrici valenti il cui nome si è perso nei secoli; menti brillanti e promettenti di fanciulle a cui fu negato lo studio perché femmine (e lo scandalo e il sopruso durano ancora ahimè in tante parti del mondo) e l'elenco parrebbe infinito. Ma tornando a Lelle è ora che le venga resa giustizia e le sue opere vengano finalmente alla luce pubblica, celebrate come si conviene. Le mie estati lontane, i giochi e le esperienze che Guido ed io accumulavamo su e giù per i sentieri di Villa Levi,anno dopo anno fino all'adolescenza e poi la dorata giovinezza; gli echi della ridente natura che Lelle fissa sulla tela, colori, respiro della collina, il territorio quotidiano comune a Carlo, e poi Stefano e Guido cresciuti nella villa e dalla villa partiti quindi per la loro avventura di artisti, col suggello e la benedizione della casa di famiglia coi suoi rituali e i suoi irrinunciabili appuntamenti, mi parlano nelle tele di Lelle e,non mi vergogno a dirlo, rovesciano su di me in maniera commovente e struggente tutto il senso del mio passato. Elogio di un'anima gentile, ho così intitolato queste mie brevi righe: Elogio di una brava,veramente brava pittrice, di un'artista vera da riscoprire tutta intera e, infine, di una figura di donna affettuosa, devota, sollecita il cui sorriso non ho mai potuto dimenticare.

La marea montante di mostre e rassegne d’arte ha raggiunto livelli davvero impressionanti.

Tomaso Montanari e Vincenzo Trione parlano, in un loro efficace pamphlet, di circa diecimila mostre l’anno, definendole senza mezzi termini “mostre blockbuster”, ovvero mostre le cui finalità sono molto simili alle cosiddette “bolle speculative”.

Ciò è l’evidente conseguenza della marcata visione mercantile imposta dal “sistema dell’arte”, ed anche conseguenza del fatto che l’arte contemporanea è quasi tutta indirizzata alla “concettualizzazione”, più che al “fare” nel senso, storicamente consolidato, di produzione artistica. 

Il noto artista Jeff Koons è molto chiaro in proposito: “L’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo”.

Non più opere d’arte, ma vuoti artefatti, installazioni, performance… tutte cose orientate a effetti comunicativi che spesso s’impongono solo per le loro caratteristiche dissacranti e distruttive che poco hanno in comune con la categoria del bello. 

“La fame dell’occhio”, intesa come bisogno di nutrirsi di valori estetici, non appare più soddisfatta!


Per converso, la mostra di cui ci occupiamo certamente possiede un alto tasso di autenticità, poiché è assolutamente priva del superficiale e dilagante conformismo che connota il presente. Si configura come un evento attraente, non solo per i prestigiosi nomi presenti. Soprattutto perché non sono mostrate cose ovvie e scontate; dunque un evento che non può che provocare interesse e piacere.

Al costume corrivo, al cattivo gusto, si sostituisce una vitalità, una densità pittorica davvero di rara qualità.

Carlo Levi, Lelle Levi, Guido Sacerdoti, sul filo diacronico della loro vicenda esistenziale e della loro storia artistica, praticano una “pittura-pittura”, segno tangibile di una comune, identica passione, di un insieme di medesime esperienze vissute sopra ogni cosa. Indistinguibili sentimenti e sensazioni li uniscono, insieme ai rapporti di parentela.

Diremmo, con un unico termine sintetico e condensato, si tratta di una comune Empfindung, come affermano i cultori di estetica tedeschi.

Carlo, naturalmente, è il maestro, il capofila della geniale pittura degli artisti in esposizione. In questa mostra però è preceduto dal padre, Ercole, anch’esso pittore, qui presente con un interessante paesaggio estivo, connotato da una ampia e ridente spiaggia arricchita da molteplici figure di bagnanti.


Una pittura, la loro, che sembra possedere le connotazioni, o forse la singolare predisposizione, di una comune base genetica, direi di spiccata peculiarità artistica, ma anche di una singolare e tattile tecnica della pennellata. 

Come se la motricità della mano, sapientemente orientata a costruire forme, creasse col suo stesso andamento, libero e sinuoso, le tipiche macchie cromatiche che connotano i dipinti dei nostri artisti e, in qualche modo, ne costituissero una sorta di flatus vocis cromatico.


Su Carlo Levi, personalità a dir poco poliedrica, la cui pittura emerge con la forza del realismo nella storia dell’arte del ‘900, la critica e la storia hanno sviluppato molte, articolate e importanti argomentazioni, con significativi riferimenti al valore sociale dei suoi soggetti e delle sue rappresentazioni.


Di Guido Sacerdoti la recente mostra ha segnalato ulteriormente quello scatto che la sua arte possiede nel rapporto pittorico tra natura, storia e cultura. Una libertà linguistica manifestata a tutto campo e, a parer mio, ben riassunta in quella vasta opera fatta al “Be out”, purtroppo perduta e dispersa, della quale un prezioso filmato mostra la sottile ironia dei rimandi alle grandi predilezioni pittoriche di Guido.

Ecco la felicità di un coloratissimo canto pittorico, fatto di variazioni su temi e intrecci della grande storia della pittura, che ha attirato e catturato tutti quelli che hanno avuto la fortuna di gustare il suo ampio ciclo di pittura murale al “Be out”.


Inoltre, sono esposti due dipinti di Stefano Levi Della Torre, architetto, saggista e finissimo artista di rare capacità pittoriche. Nelle due tele in mostra, infatti, vive quella particolare trama fatta di baluginante luminosità che conferisce complessità cromatica e profondità prospettica finanche ai più semplici e chiari soggetti che l’artista spesso sceglie. 

Di conseguenza, la sua pittura diventa agli occhi del riguardante una autentica ed espressiva scoperta, laddove le apparenze celano spessore e interiorità, davvero impenetrabili. 


La mia riflessione è puntata principalmente sulla pittura di Lelle Levi, sul suo modo di percepire e immaginare la natura e di tradurla in apparati, strutture e composizioni 



Cromatiche. Talvolta, direi, la sua pittura si manifesta quale umbratile e segreta comunicazione per immagini che è il modo più sottile e pervasivo per dire: esisto!

Un vitale esserci, dunque, attraverso la pittura che lascia intravvedere una sorta di panteistico amore per il regno vegetale, una indicibile passione e trasporto per la natura, mai reificabile, mai vanificabile!

Possiedo un dipinto di Lelle Levi, un olio realizzato nel 1959 su cartone telato 50 x 45. È su di una parete, esposto alla mia quotidiana percezione visiva che, inevitabilmente, ne valuta, sempre più approfonditamente, il procedimento pittorico, le caratteristiche formali, materiche, il soggetto rappresentato. 

La mia ripetuta e segreta lettura, il mio “saper vedere”, si manifesta non come una reiterata fruizione che nel tempo perde entusiasmo e vigore, ma quale insistente e imprevedibile incontro tra l’opera pittorica di Lelle e la mia variabile coscienza ricettiva. 

In breve, tra il piccolo quadro e il mio occhio si è formato un rapporto tanto profondo quanto intimo e occulto. 

Ne viene fuori una specie di complicità tra il ramificato e ricurvo albero raffigurato tra terra e cielo, o meglio, tra la sua fantasiosa idea descrittiva e l’acutezza del mio occhio che tenta di esercitare un rinnovato giudizio critico ogni giorno e infine si abbandona alla contemplazione della bellezza pittorica. 

Cosa che non avviene con gli altri, pur numerosi, dipinti che possiedo nella mia casa.

Lelle Levi ha ben assimilato la lezione del fratello, insieme, penso, a una certa attenzione per Cézanne, Van Gogh, Gauguin variando, con magica abilità, la tecnica della pennellata pittorica ora semplicemente tracciata, ora distesa, ma sempre “a strati spessi come uno scrittore sottolinea le parole”. Così ha sagacemente scritto per Van Gogh, Ernst Gombrich.

La felice, trascorrente fenomenicità della pittura di Lelle è tutta affidata alla pennellata spessa, pastosa e insieme produttiva che dà contenuto ed energia espressiva all’avventura materica dei suoi dipinti. 

L’intensità con la quale l’artista, tangibilmente, penetra e colloquia in profondità con la materia cromatica non è mai il risultato di una gestualità involontaria; piuttosto è l’effetto intenzionale di chi va alla ricerca di una substantia ormai perduta e sostituita dal fenomeno virtuale.


Paesaggi, nature morte, ritratti, questi i temi maggiormente trattati e interpretati dall’artista. 

I paesaggi, le geometrie della natura di Lelle Levi scoprono, nel tattile contatto con la natura, la possibilità di ardite scomposizioni e ricomposizioni cromatiche, per chiazze in contrasto o per trapassi e fluidificazioni chiaroscurali.

Lelle introduce, nei suoi paesaggi, un’aura emozionalmente evocatrice del rapporto affettivo con i luoghi del cuore, teatro pittorico del suo “tempo libero”, teatro ludico della vita e di una timbrica pittura che si fa gioco respirando pneuma mediterraneo, nel senso autentico e antico del termine.


Come l’uomo schilleriano “è pienamente uomo unicamente quando gioca”, così Lelle si realizza quando gioca con i colori e ne fa gustosa autonomia pittorica, sicché il paesaggio mediterraneo, sia quello di Albenga o di Colli di Fontanelle sulla costiera sorrentina, diventa il vero nucleo emotivo, velato di universale tenerezza, dei suoi dipinti.

L’immersione nella galassia arborea, l’intrigo mediterraneo delle forme vegetali continua nelle nature morte, un genere pittorico ben preferito dall’artista, dove il segno pittorico, la caratteristica traccia estetica, diventa definito e visibile codice distintivo, ritmo primario e sostanziale della sua pittura: una densità pittorica strutturale, generatrice di fiori e frutti della terra, una vitalità che nelle accensioni cromatiche appare in contraddizione con la denominazione del genere pittorico, perché la vita e la verità sono nel colore.

Anche il genere del ritratto è presente nella produzione pittorica di Lelle Levi. 

Paola e Guido sono, così come raffigurati, la prova della congettura dell’artista tesa sempre al superamento del rapporto tra il vero e il verosimile.

Allora, la realtà fisionomica diventa trascurabile nella trasmutazione pittorica; non appare indirizzata alla somiglianza, anche se efficacemente riscontrabile nei dipinti, quanto piuttosto alla riuscita ricerca della individualità, dell’intensità psicologica dei due figli ritratti.

Penso che delucidare, tradurre in parole la complessità di queste cose sembra quasi un limitare i molteplici significati che l’osservatore percepisce quando la pittura prende corpo e diviene realtà poetica dell’artista. 

La ricchezza immaginativa della pittura di Lelle Levi è sempre presente in ogni piccolo particolare, finanche in ogni sua singola pennellata.La marea montante di mostre e rassegne d’arte ha raggiunto livelli davvero impressionanti.

Tomaso Montanari e Vincenzo Trione parlano, in un loro efficace pamphlet, di circa diecimila mostre l’anno, definendole senza mezzi termini “mostre blockbuster”, ovvero mostre le cui finalità sono molto simili alle cosiddette “bolle speculative”.

Ciò è l’evidente conseguenza della marcata visione mercantile imposta dal “sistema dell’arte”, ed anche conseguenza del fatto che l’arte contemporanea è quasi tutta indirizzata alla “concettualizzazione”, più che al “fare” nel senso, storicamente consolidato, di produzione artistica. 

Il noto artista Jeff Koons è molto chiaro in proposito: “L’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo”.

Non più opere d’arte, ma vuoti artefatti, installazioni, performance… tutte cose orientate a effetti comunicativi che spesso s’impongono solo per le loro caratteristiche dissacranti e distruttive che poco hanno in comune con la categoria del bello. 

“La fame dell’occhio”, intesa come bisogno di nutrirsi di valori estetici, non appare più soddisfatta!


Per converso, la mostra di cui ci occupiamo certamente possiede un alto tasso di autenticità, poiché è assolutamente priva del superficiale e dilagante conformismo che connota il presente. Si configura come un evento attraente, non solo per i prestigiosi nomi presenti. Soprattutto perché non sono mostrate cose ovvie e scontate; dunque un evento che non può che provocare interesse e piacere.

Al costume corrivo, al cattivo gusto, si sostituisce una vitalità, una densità pittorica davvero di rara qualità.

Carlo Levi, Lelle Levi, Guido Sacerdoti, sul filo diacronico della loro vicenda esistenziale e della loro storia artistica, praticano una “pittura-pittura”, segno tangibile di una comune, identica passione, di un insieme di medesime esperienze vissute sopra ogni cosa. Indistinguibili sentimenti e sensazioni li uniscono, insieme ai rapporti di parentela.

Diremmo, con un unico termine sintetico e condensato, si tratta di una comune Empfindung, come affermano i cultori di estetica tedeschi.

Carlo, naturalmente, è il maestro, il capofila della geniale pittura degli artisti in esposizione. In questa mostra però è preceduto dal padre, Ercole, anch’esso pittore, qui presente con un interessante paesaggio estivo, connotato da una ampia e ridente spiaggia arricchita da molteplici figure di bagnanti.


Una pittura, la loro, che sembra possedere le connotazioni, o forse la singolare predisposizione, di una comune base genetica, direi di spiccata peculiarità artistica, ma anche di una singolare e tattile tecnica della pennellata. 

Come se la motricità della mano, sapientemente orientata a costruire forme, creasse col suo stesso andamento, libero e sinuoso, le tipiche macchie cromatiche che connotano i dipinti dei nostri artisti e, in qualche modo, ne costituissero una sorta di flatus vocis cromatico.


Su Carlo Levi, personalità a dir poco poliedrica, la cui pittura emerge con la forza del realismo nella storia dell’arte del ‘900, la critica e la storia hanno sviluppato molte, articolate e importanti argomentazioni, con significativi riferimenti al valore sociale dei suoi soggetti e delle sue rappresentazioni.


Di Guido Sacerdoti la recente mostra ha segnalato ulteriormente quello scatto che la sua arte possiede nel rapporto pittorico tra natura, storia e cultura. Una libertà linguistica manifestata a tutto campo e, a parer mio, ben riassunta in quella vasta opera fatta al “Be out”, purtroppo perduta e dispersa, della quale un prezioso filmato mostra la sottile ironia dei rimandi alle grandi predilezioni pittoriche di Guido.

Ecco la felicità di un coloratissimo canto pittorico, fatto di variazioni su temi e intrecci della grande storia della pittura, che ha attirato e catturato tutti quelli che hanno avuto la fortuna di gustare il suo ampio ciclo di pittura murale al “Be out”.


Inoltre, sono esposti due dipinti di Stefano Levi Della Torre, architetto, saggista e finissimo artista di rare capacità pittoriche. Nelle due tele in mostra, infatti, vive quella particolare trama fatta di baluginante luminosità che conferisce complessità cromatica e profondità prospettica finanche ai più semplici e chiari soggetti che l’artista spesso sceglie. 

Di conseguenza, la sua pittura diventa agli occhi del riguardante una autentica ed espressiva scoperta, laddove le apparenze celano spessore e interiorità, davvero impenetrabili. 


La mia riflessione è puntata principalmente sulla pittura di Lelle Levi, sul suo modo di percepire e immaginare la natura e di tradurla in apparati, strutture e composizioni 



Cromatiche. Talvolta, direi, la sua pittura si manifesta quale umbratile e segreta comunicazione per immagini che è il modo più sottile e pervasivo per dire: esisto!

Un vitale esserci, dunque, attraverso la pittura che lascia intravvedere una sorta di panteistico amore per il regno vegetale, una indicibile passione e trasporto per la natura, mai reificabile, mai vanificabile!

Possiedo un dipinto di Lelle Levi, un olio realizzato nel 1959 su cartone telato 50 x 45. È su di una parete, esposto alla mia quotidiana percezione visiva che, inevitabilmente, ne valuta, sempre più approfonditamente, il procedimento pittorico, le caratteristiche formali, materiche, il soggetto rappresentato. 

La mia ripetuta e segreta lettura, il mio “saper vedere”, si manifesta non come una reiterata fruizione che nel tempo perde entusiasmo e vigore, ma quale insistente e imprevedibile incontro tra l’opera pittorica di Lelle e la mia variabile coscienza ricettiva. 

In breve, tra il piccolo quadro e il mio occhio si è formato un rapporto tanto profondo quanto intimo e occulto. 

Ne viene fuori una specie di complicità tra il ramificato e ricurvo albero raffigurato tra terra e cielo, o meglio, tra la sua fantasiosa idea descrittiva e l’acutezza del mio occhio che tenta di esercitare un rinnovato giudizio critico ogni giorno e infine si abbandona alla contemplazione della bellezza pittorica. 

Cosa che non avviene con gli altri, pur numerosi, dipinti che possiedo nella mia casa.

Lelle Levi ha ben assimilato la lezione del fratello, insieme, penso, a una certa attenzione per Cézanne, Van Gogh, Gauguin variando, con magica abilità, la tecnica della pennellata pittorica ora semplicemente tracciata, ora distesa, ma sempre “a strati spessi come uno scrittore sottolinea le parole”. Così ha sagacemente scritto per Van Gogh, Ernst Gombrich.

La felice, trascorrente fenomenicità della pittura di Lelle è tutta affidata alla pennellata spessa, pastosa e insieme produttiva che dà contenuto ed energia espressiva all’avventura materica dei suoi dipinti. 

L’intensità con la quale l’artista, tangibilmente, penetra e colloquia in profondità con la materia cromatica non è mai il risultato di una gestualità involontaria; piuttosto è l’effetto intenzionale di chi va alla ricerca di una substantia ormai perduta e sostituita dal fenomeno virtuale.


Paesaggi, nature morte, ritratti, questi i temi maggiormente trattati e interpretati dall’artista. 

I paesaggi, le geometrie della natura di Lelle Levi scoprono, nel tattile contatto con la natura, la possibilità di ardite scomposizioni e ricomposizioni cromatiche, per chiazze in contrasto o per trapassi e fluidificazioni chiaroscurali.

Lelle introduce, nei suoi paesaggi, un’aura emozionalmente evocatrice del rapporto affettivo con i luoghi del cuore, teatro pittorico del suo “tempo libero”, teatro ludico della vita e di una timbrica pittura che si fa gioco respirando pneuma mediterraneo, nel senso autentico e antico del termine.


Come l’uomo schilleriano “è pienamente uomo unicamente quando gioca”, così Lelle si realizza quando gioca con i colori e ne fa gustosa autonomia pittorica, sicché il paesaggio mediterraneo, sia quello di Albenga o di Colli di Fontanelle sulla costiera sorrentina, diventa il vero nucleo emotivo, velato di universale tenerezza, dei suoi dipinti.

L’immersione nella galassia arborea, l’intrigo mediterraneo delle forme vegetali continua nelle nature morte, un genere pittorico ben preferito dall’artista, dove il segno pittorico, la caratteristica traccia estetica, diventa definito e visibile codice distintivo, ritmo primario e sostanziale della sua pittura: una densità pittorica strutturale, generatrice di fiori e frutti della terra, una vitalità che nelle accensioni cromatiche appare in contraddizione con la denominazione del genere pittorico, perché la vita e la verità sono nel colore.

Anche il genere del ritratto è presente nella produzione pittorica di Lelle Levi. 

Paola e Guido sono, così come raffigurati, la prova della congettura dell’artista tesa sempre al superamento del rapporto tra il vero e il verosimile.

Allora, la realtà fisionomica diventa trascurabile nella trasmutazione pittorica; non appare indirizzata alla somiglianza, anche se efficacemente riscontrabile nei dipinti, quanto piuttosto alla riuscita ricerca della individualità, dell’intensità psicologica dei due figli ritratti.

Penso che delucidare, tradurre in parole la complessità di queste cose sembra quasi un limitare i molteplici significati che l’osservatore percepisce quando la pittura prende corpo e diviene realtà poetica dell’artista. 

La ricchezza immaginativa della pittura di Lelle Levi è sempre presente in ogni piccolo particolare, finanche in ogni sua singola pennellata.

Tutto cominciò ad Alassio, verrebbe da dire. 

In realtà non è vero, ma è a Villa Levi, sulla collina ligure, che si sono incrociate e mescolate le esperienze e la pittura di Ercole Levi, dei figli Carlo e Adele, e dei nipoti Stefano e Guido.


Ercole affrescò buona parte della villa con pitture mirabili. "E quando questo pollo arrostirà, allora il nostro amore cesserà", si leggeva sull'uscio di casa; il pollo dipinto nella pietra da Ercole è rimasto per 90 anni un simbolo fondamentale della nostra famiglia, custode e messaggero per quattro generazioni di un legame antico e sereno. Anche Carlo affrescò un’intera stanza della villa, raffigurando una vendemmia di rara bellezza.

La famiglia si riuniva a Villa Levi per le vacanze estive, e dopo il mattino trascorso al mare (magari a erigere monumentali statue di sabbia), nelle ore pomeridiane protagonista era la pittura: Lelle si cimentava nei dintorni di casa, mentre i giovani Stefano e Guido andavano con lo zio Carlo a dipingere tra i terrazzamenti della collina o in pineta, e vi restavano fino a quando il crepuscolo non rendeva quasi invisibili i sentieri; a quel punto tornavano a Villa Levi e trascorrevano la sera commentando i quadri del giorno insieme a Lelle. Erano autentiche lezioni di pittura in cui lo zio, artista raffinato, istruiva i familiari che sperimentavano e affinavano le loro tecniche. 

La pittura dei Levi fu in Ercole l'amore; In Carlo, il coraggio; in Lelle, l'armonia; in Guido, il movimento; in Stefano, il significato.

In tutti, la pittura come esigenza di raccontare e di raccontarsi, senza mai allontanarsi dalla rappresentazione del reale, dell’oggetto in sé.

Pittura gioiosa, ma non solo giocosa: pittura necessaria, continua, che ha accompagnato i protagonisti in un incessante diario esistenziale, in cui il tempo compie i propri cicli, fiorisce l'azalea, trionfano agavi, olivi e carrubi, e i pini tramandano antiche verità. Passano gli anni, invecchiano gli occhi e le mani, e la pittura è sempre lì a raccontare tutto. 


Gli elementi leviani (la civetta, l'orologio, il carrubo antropomorfo) si inseriscono in un lessico familiare più ampio, che abbraccia i Levi e i Sacerdoti in una narrazione comune. C'è tanto del maestro Carlo Levi nella pittura degli allievi Lelle, Guido e Stefano, ma ciascuno articola i temi e gli stili in un percorso individuale, originale, che nasce dalla stessa radice e che ciclicamente vi ritorna, nel confronto e nella crescita esistenziale e artistica. 

La pittura dei Levi/Sacerdoti è autobiografia, espressione di un solo giorno e di un momento interiore, che viene eletto e fissato in un'icona mitologica. Mito negli alberi, nella collina, nel giardino di Villa Levi; mito nei frutti e nelle rose delle nature morte; mitologici i volti dei protagonisti ritratti, che rimangono scolpiti nel percorso autobiografico pittorico in un atto di amore reale, dinamico, autentico, che sopravviverà sia al pittore che al suo interlocutore: le tele di quei pomeriggi ad Alassio hanno attraversato le generazioni e le alterne vicende della famiglia, arrivando fino a oggi, con bellezza, potenza, e valore.


Parallelamente alla produzione alassina, la pittura di Lelle è si è articolata fra Torino, Napoli e Sorrento.

Lelle arrivò in sposa a Napoli con tre valigie cariche di disegni e di tele non intelaiate, di pregevole fattura: le centinaia di opere erano state prodotte negli anni giovanili trascorsi a Torino. In effetti Lelle mostrò molto presto una chiara attitudine al disegno, aveva talento, e avrebbe desiderato intraprendere un percorso di formazione in Accademia, ma Carlo, fratello maggiore, non glielo consentì: forse ancora in quell' epoca una giovane donna artista emancipata non sarebbe stata benvista nella società? Forse Carlo temeva che il frequentare circoli di giovani artisti avrebbe corrotto la sorella vivace e intraprendente? 

Dunque Lelle continuò a coltivare la sua passione e a migliorare la sua tecnica pittorica in autonomia nella giovinezza a Torino. 

Comunque Carlo insegnò tanto della tecnica pittorica a Lelle, e, al di là delle condivisioni sul piano artistico, tra i due ci fu sempre un rapporto solido e affettuoso.


Ecco Carlo che scriveva a Lelle, nell'estate del 1941:


"Cara Lelle,

La tua lettera ci è giunta oggi, e siamo molto contenti che vi divertiate a Napoli, e che il singolare mistero di quel paese classico e antico, dove gli oscuri iddii, e i mostri e le sibille e i delfini stanno di casa oggi come nei più remoti tempi della memoria, non vi spaventi troppo, e anzi tenda a diventare, con un po' di assuefazione, amichevole e liberatore. Certo, per capire Napoli, bisogna rendersi capaci di distacco, e soprattutto, di quella fantasia mitologizzatrice che fa vedere identiche le cose e i loro sensi. E svincolarsi della ragione pratica, che non può che sentirvisi a disagio, tra il chiasso, il disordine, e l'imprevisto improvviso apparire, sotto gli abiti quotidiani, dal pelo ricciuto di qualche antico dio silvestre. Ermafroditi classici, addormentati sui gradini delle chiese barocche, sono un richiamo così evidente ad un sempre presente altro, da spaventare tutte le virtù. Patria del Telesio, e del Telese (che è un'acqua ottima, che vi consiglio di bere), e capitale della miseria e della civiltà precristiana, io l'amo moltissimo, ma so bene che può far paura, come un mondo senza difesa. Per viverci bene, credo che bisogna essere capaci di ritorni profondissimi (e amarli), altrimenti ci si resta come degli infelici, razionalisti in esilio, o dei turisti condannati al folklore e infarinati di ricordi classicistici. lo credo che tu, che non sei niente affatto cristallizzata, potrai sentirne il senso e la bellezza senza essere troppo sgomentata dalla sua radicale, incaccellabile tristezza. In quegli occhi neri c'è il dolore di un bene perduto per sempre, e una agitazione senza vera speranza, e una umanità commovente, perchè non corazzata di virtù e lontanissima dall'orgoglio. E' l'opposto del pudore, della libertà formale e della orgogliosa timidezza torinese.

Come ti ci trovi? E quando pensate di tornare? Certo, questo è un viaggio ben arduo, se deve rivelarti una città e un uomo: ma io so che tu sal vedere e sentire, e nel tuo cuore decidere in modo giusto.

Ti abbraccio, con Luisa, con grande affetto".


Di lì a breve Lelle si trasferì definitivamente a Napoli, si sposò con Edoardo Sacerdoti, diede alla luce Guido, Franco e Paola, e trascorse la vita tra Napoli, Sorrento e Alassio.

La residenza napoletana della famiglia Sacerdoti è stata Villa Haas, in una grande casa che fu, dagli anni '50 agli anni ‘80, un ritrovo di intellettuali, artisti, giovani attivi nella politica. Era una casa in cui si respirava cultura continuamente, tra letteratura, opere liriche, musica da camera, partite a scacchi, dibattiti sessantottini. Casa in cui Lelle si è espressa liberamente sia come pittrice che come pianista di musica da camera, oltre che come cuoca formidabile e generosa padrona di casa. Casa in cui, sotto lo sguardo della mamma artista, sbocciarono la pittura per Guido, la scultura per Franco, la musica per Paola. 


Giunse poi un'altra villa mitologica nella vita di Lelle, quella a Colli di Fontanelle, acquistata nel 1975. Stavolta fu la stessa Lelle ad affrescare tutti gli interni, con temi floreali di mirabile fattura, proprio come aveva fatto il padre Ercole ad Alassio. La produzione pittorica sorrentina di Lelle fu cospicua e di alto livello, e ci riporta come col trascorrere degli anni Lelle avesse ancora tanta vitalità, gioia e passione.


Lelle ha dipinto e suonato per tutta la vita, fino a quando, nel marzo 1985, si è spenta improvvisamente nella sua casa a Napoli, in seguito alle complicanze di un'influenza.

Mio padre raccontava che un minuto dopo la morte di Lelle, sentì un usignolo cantare nella notte. Era convinto che la sua anima si fosse reincarnata in un usignolo. La sua pittura è rimasta con noi.


Pittura, ma anche musica. Molta musica; non soltanto ascoltata, ma soprattutto suonata. Cresciuta in un ambiente familiare vivace, aperto al mondo, sensibile alla cultura e al bello, Adele (Lelle) Levi Sacerdoti ha recato con sé, da torinese trapiantata al sud, un importante bagaglio di passione per i valori più elevati. Fondamentale è stato l’imprinting originario, e il riflesso, anche grazie al fratello Carlo, delle frequentazioni nella Torino del primo Novecento. E, come ci ricorda anche la sua opera pittorica qui documentata, il trapianto a Napoli è riuscito bene, nella storica dimora di via Cimarosa dove, insieme al marito Edoardo, ha orientato la sua nuova famiglia e i figli verso ideali e interessi creativi, originali, coltivandone l’intelligente curiosità. In ogni caso, il pianoforte di marca “Anelli”, marca torinese importante tra otto e novecento, ha seguito la giovane Lelle, ed è ancor oggi nella casa.


Già da bambina, studia sistematicamente il pianoforte, e racconta di come si schermisca quando visitatori e parenti le chiedono di suonare un pezzetto facile di Beethoven, che lei a dispetto “suonicchia senza senso”. La musica però la conquista definitivamente attorno ai dieci anni. Suo padre Ercole Levi  - uomo intelligentissimo, buono, e con animo d’artista, nei ricordi di Lelle -  ha da poco comprato nei primi anni venti, sulla collina di Alassio in Liguria, una villa circondata da una vasta campagna. In quel paradiso, una delle prime estati, piomba come un tornado uno zio dall’America del sud (fratello della mamma Annetta), con tanto di moglie, la zia Fanny, che è cantante lirica, apprezzato contralto: un donnone di 105 chili, peso che lei si porta a spasso senza inibizioni, intraprendente com’è e piena di energia. 


Fatto sta che la collina comincia a risuonare delle sue note potenti, tecnicamente impostate, che incantano Lelle e le coetanee amichette. Il contagio si diffonde, quell’estate: il padre Ercole, con bel timbro baritonale, intona l’aria Giunto sul passo estremo dal Mefistofele di Arrigo Boito, un altro zio medico con voce tenorile esegue Cielo e mar! da La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Come se non bastasse, in quelle settimane la zia Fanny è scritturata alla Scala, per Orfeo ed Euridice di Gluck nella stagione imminente, e si tuffa nello studio. La frittata è fatta. Da quel momento, raccontava Lelle, si forma la sua passione per la musica lirica, e per tutta la musica classica. 


Come tutte le sue passioni, anche questa per la musica è prorompente. E, da testimone diretto che frequentava sua figlia Paola (poi mia moglie), ricordo bene qualche pomeriggio in cui Lelle, nella casa di via Cimarosa, si agghindava per recarsi da abbonata fedele e immancabile alla recita domenicale al Teatro di San Carlo, dove magari si dava, chissà, La Traviata. Ed ecco quindi, in tal caso, che percorrendo lei su e giù il lungo corridoio tra un preparativo e l’altro, le mura risuonavano a squarciagola di Sempre libera degg’io. Proprio nel palco del San Carlo Lelle conoscerà un’altra signora, anch’ella abbonata e appassionata, che diverrà sua fedele amica: Aurora Nazzaro, che aveva studiato canto lirico senza però poter intraprendere una carriera, costretta a scegliere, come usava un tempo, tra matrimonio e palcoscenico.


Con Aurora, Lelle promuove un’amicizia, anche musicale, molto creativa. E si presta volentieri ad accompagnare l’amica soprano al pianoforte. Insieme, per anni, le due amiche provano e registrano un vasto repertorio di arie d’opera, sopranili appunto. E, nel loro fanciullesco entusiasmo, registrano i risultati del loro lavoro su una quantità di musicassette con un apparecchio amatoriale, senza farsi tanti problemi di qualità tecnica delle incisioni. Chiamano concerti queste loro sessioni di canto e pianoforte, probabilmente perché ogni cassetta reca i titoli di una locandina ben studiata e assortita. Come sempre quando si fa musica insieme, le due interpreti devono ben tarare, misurare, concertare la fusione delle rispettive parti. E ora queste musicassette, appena ritrovate dal nipote Carlo Sacerdoti, meriteranno un lavoro di recupero, se non altro per ragioni sentimentali e familiari.


Ma oltre alle sessioni di canto lirico con Aurora, il carattere energico e allegro di Lelle coinvolge altri due musicisti, appassionati e attempati come lei, con i quali negli anni settanta e oltre si forma un trio di violino violoncello e pianoforte. Violino è il maestro Giovannini, componente della gloriosa orchestra Alessandro Scarlatti, violoncello è la signora ungherese Aranka Boronkay, pianoforte Lelle stessa. Tre musicisti che, per anni, si incontrano regolarmente ogni settimana, in casa di Lelle ovviamente perchè il pianoforte è lì, e che si uniscono a suonare per il piacere di far musica insieme. Musica da camera, genere di profondo impegno e finezza di gusto. Perché, come sa chi ha praticato la musica d’insieme, strumentale o anche in coro, mentre si suona o si canta la propria parte, nello stesso tempo bisogna tendere l’orecchio ad ascoltare le altre parti, in modo da non prevaricarle e, soprattutto, da costruire insieme un discorso musicale ben calibrato, ben tornito, che esprima un pensiero interpretativo disegnato e ragionato insieme. 


Impegno tutt’altro che facile, fare musica da camera dal vivo, e che richiede sensibilità, attenzione agli altri, desiderio di fare squadra per un obiettivo comune. Come si può comprendere, è un laboratorio, una palestra non soltanto di musica, ma anche di civiltà e di considerazione per gli altri. Ed è una pratica sociale, questa di far musica in casa  - musica amatoriale s’intende, per il piacere di farla, e senza intenti professionali -  che ormai appartiene a un’epoca passata e a generazioni precedenti. Ciò sia per l’avvento, fin da metà del secolo scorso, di musica riprodotta con mezzi via via più sofisticati, sia per l’endemico handicap culturale che affligge il nostro paese, musicalmente analfabeta in epoca moderna. Per la cronaca, il trio dei nostri prodi si scioglierà forzatamente quando il maestro Giovannini avrà deciso di tornare a vivere a Firenze, con profondo, comprensibile dispiacere delle due “ragazze”, come mi ha raccontato l’amico Massimo Menegozzo, figlio della signora Aranka. 


In tutto questo fare musica, però, Lelle Levi Sacerdoti coltiva anche la passione insopprimibile per la pittura, del che qui trattano altri esperti, competenti e autorevoli. Al riguardo, vorrei tuttavia ricordare, da semplice osservatore, l’entusiasmo nel dipingere anche qualche grande ma semplice cartone da parete, per allietare la stanza dei nipotini. Ma, soprattutto, va ricordato un vasto lavoro amatoriale che l’ha impegnata finanche in vecchiaia; lo sottolineo perché fu una fatica lunga e talvolta rischiosa, con uso anche di scale per arrivare in alto. Si tratta di un vasto ciclo parietale, in più ambienti, dipinto nella villa che la famiglia Sacerdoti possedette per qualche anno sui Colli di Fontanelle in terra di Piano di Sorrento. Il ciclo creato da Lelle era un insieme di varie scene bucoliche e naturalistiche, in omaggio al paesaggio circostante, dipinte con mano sicura ed esperta, con idee ben chiare nella raffigurazione di immagini familiari e dei nipotini sopraggiunti nel frattempo. Un lavoro senza pretese, ma che coloriva decisamente la casa, e recava il segno inconfondibile dell’estro e dell’allegria caratteriale di questa singolare artista. 

Scriverò principalmente della Lelle vista con il mio sguardo di bambina e delle cose orecchiate su di lei in famiglia da ragazza.

Non so perché al pensiero di Lelle mi è venuta in mente la parola “acquerello”, una immagine leggera   e serena. E dire che lei fisicamente leggera non lo era di certo, anzi piuttosto rotondetta, serena non so, ma si mostrava tale. E di acquerelli dipinti da lei ne ricordo pochi, mentre ricordo bene i quadri della natura di Alassio a pennellate larghe, altri, più intimi, di persone e cose, più “lisci”.  Ma qui mi taccio perché di pittura mi intendo assai poco.

 Ricordo una immagine ridente di lei in una foto che la ritraeva a condurre un “pattino”, stracarico di noi bambini, nel mare di Alassio. Si tratta di una imbarcazione popolare negli anni ’50 quando le norme di sicurezza erano assai più lasche che adesso. Venivano tranquillamente utilizzati per diporto da bagnanti spesso assai inesperti, ma di fatto non si ribaltavano mai. 

Con lo stesso sorriso la sentivo chiacchierare a lungo con mia madre, sua cugina, durante la quotidiana nuotata, spesso raccontando le occasionali scaramucce tra cognate, che mirabilmente gestivano assieme ed in sostanziale armonia la quotidianità nella storica villa sulla collina, aperta a parenti ed amici, sfamando un numero variabile di persone, che spesso si precisava solo all’ora dei pasti. Poi le cognate si ritrovavano unite nella trepidante attesa di Carlo (Levi), fratello di Lelle e noto pittore e scrittore, che trascinava per giorni l’informazione sulla data del suo reale arrivo, con notevole frustrazione di chi doveva allestire l’accoglienza.

Da quanto udito in seguito dai miei più stretti famigliari, loro cugine, Lelle era cresciuta nell’aurea dorata del mondo intellettuale torinese che negli anni ’20-’30 ruotava attorno a Carlo, fratello maggiore. E pure lei si accingeva ad intraprendere un futuro nelle arti, dipingendo e suonando il piano.

 La vediamo piccina, accanto alla madre, nel famoso quadro di Carlo intitolato “Aria” che raffigura un vasto gruppo famigliare all’aperto proprio nelle “fasce” adiacenti alla villa sulla collina. Con il tempo poi molto aveva appreso dal milieu in cui era cresciuta e certo non aveva intenzione di staccarsene. Probabilmente avrebbe voluto seguire all’Accademia delle belle arti corsi di pittura, ma, per quanto appresi da mezze frasi e commenti, quello non era il progetto dei suoi genitori che, come allora ancora si usava, avevano provveduto ad organizzare per lei un matrimonio “appropriato” con un bravo giovanotto di Napoli, anche lui, come Lelle, di famiglia ebraica. Lo ricordo come persona buona, affettuosa, disponibile con vivacissimi occhi azzurri che ti guardavano con dolcezza. Era un bravo imprenditore ed un indefesso lavoratore. Ma allora per Lelle voleva dire un cambiamento enorme nella sua vita.

Pare che l’idea, all’inizio, non le fosse per nulla gradita, ma la famiglia, compreso il fratello pittore, la spinsero fortemente in questa direzione,

Con che cuore era arrivata a Napoli? Come era cambiata la sua vita e come aveva vissuto in lunghi anni il suo “esilio” napoletano?  Domande che mi pongo ora con occhi   da adulta, ripensando alla sua vicenda.

Ritorno ai ricordi giovanili. La mia prima visita a Napoli fu, dopo la terza media, da Alassio in treno -lunghissimo viaggio allora- con Lelle ed i miei tre cugini. La vita a Napoli, in una vasta ed antica casa sul Vomero, mi parve molto affascinante e Lelle era affettuosa e gentile. Anche lì la ricordo serena. Era riuscita a importare alcuni aspetti culturali nella sua vita napoletana. Qui si inserisce un racconto di una mia cara amica, Flavia Zucco, coetanea mia e dei figli di Lelle.  Sua madre, con altre due signore e Lelle, si ritrovavano regolarmente al San Carlo per dei concerti e portavano con sé i rispettivi bambini o ragazzi.  Flavia ricorda quel gruppo con grande stima: visitavano mostre, facevano varie cose assieme ed avevano tessuto una forte amicizia, durata poi tutta la vita. 

Lelle ha sempre dipinto, come per tutti i pittori, anche i più famosi, alcuni quadri sono molto belli, altri un poco meno, Sono tutte belle immagini che le piaceva immortalare oppure visi amici e familiari.  Non sappiamo come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasta a Torino, rimpianti ne aveva di sicuro sia per la città che per quel tempo passato. Ma con il mio sguardo da tredicenne vedevo una persona  “bien dans sa peau” ,  con una vita organizzata che le si confaceva, E  ricordo ancora, di quella mia prima visita, una lunga e piacevole chiacchierata con lei, da donna a donna, davanti ad una finestra da cui si vedevano il mare e le luci di Mergellina.

Doveva essere un vizio di famiglia dei Levi quello di dipingere facendo poche o nessuna mostra pubblica. Dipingere a livello non dei pittori della domenica, ma professionale, però senza grandi esposizioni, un fare pittura che veniva fruita dagli amici e dai familiari e da sé stessi.

Siamo stati grandi amici di Guido Sacerdoti, il figlio di Lelle, e di sua moglie Marcella Marmo. Guido, primo bambino ebreo nato a Napoli dopo la guerra, la cui nascita fu salutata dalle navi americane nella rada del golfo, era più della generazione di mio fratello. Anch’io però ebbi da lui un ritratto. Eravamo dunque a conoscenza della bella mano di Guido. Così abbiamo inserito i ritratti nella mostra della Collezione Valenzi e poco dopo la morte prematura di Guido, grazie a Marcella, facemmo una sua prima antologica. Di Guido era noto il suo eclettismo e non sorprendeva questo scarso sforzo a valorizzare pubblicamente la sua arte.

Quando il figlio Carlo, allestendo la mostra per i dieci anni dalla scomparsa di Guido, che abbiamo ospitato a maggio e giugno 2023, mi ha raccontato della nonna Adele, è scattata in me una grande curiosità: una sorella di Carlo Levi di cui nessuno sapeva nulla! Nel suo caso, di Adele, o meglio Lelle, al di là del “vizio di famiglia” cui accennavo, certo ha giocato soprattutto il destino delle donne, di cui si trascura e si dimentica la capacità intellettuale per valorizzare unicamente il ruolo in famiglia, specialmente di madre.

Sono perciò felice che siamo riusciti come Fondazione Valenzi a realizzare questa esposizione come avvio di un approfondimento di questa artista. Una donna colta, piena di creatività, che forse ha sofferto anche dello sradicamento dall’ambiente culturale torinese in cui si era formata. Ma certamente Lelle entrò ugualmente nell’ambiente culturale napoletano, come testimonia il fatto che Paolo Ricci ha scritto su di lei.

Mille le risorse delle donne di quelle generazioni che riuscivano, anche se la vita le chiudeva entro certi confini, a sviluppare le loro capacità e i loro gusti culturali, entrando negli ambienti intellettuali, ovunque si trovassero.

Nessuno, certamente, conosce meglio di me i quadri di Lelle Sacerdoti: non soltanto perché, fino ad oggi, per il riserbo e la modestia dell'autrice, questa pittura non fu mai presentata al pubblico; ma perché Lelle è mia sorella, di molti anni minore di me, e a me particolarmente diletta: e quella sua pittura l'ho vista nascere e l'ho seguita giorno per giorno, dalle prime prove infantili alle opere più recenti, e posso scoprirvi quel tessuto di rapporti con la vita, le vicende, i pensieri e i sentimenti, che fanno sempre, di una espressione autentica, in qualche modo, una autobiografia sublimata.

Questa pittura, perché non dirlo?, mi piace, mi è vicina e profondamente “simpatica”, e la trovo umana, coraggiosa e armoniosa; unitaria nel suo svolgimento, attorno a un'intuizione prima, arricchita e allargata con gli anni, ma mai smentita o abbandonata: intuizione, o modo di essere e di vivere e di contemplare la vita, che nell'autrice si manifesta, del resto, identica, con lo stesso amore intelligente e sereno, nelle altre, e parimenti poetiche, attività che fanno degna l'esistenza: l'educazione dei figli, la cura di una famiglia, i mille modi irradianti e semplici di dar vita e equilibrio alle cose di ogni giorno. Così radicata in un carattere, questa pittura, anche se ha sempre rifuggito di pensarsi come professione o mestiere, è l'opposto del dilettantismo arbitrario e evasivo: è, a mio parere, viva e reale.


Essa si è formata, fin dalla prima infanzia di Lelle, in un ambiente giovanile, vitale, pieno di problemi profondi e di speranza, e di assoluta libertà. Era la Torino adolescente, dove i “sei pittori” lavoravano, trovando il primo legame con quello che di positivo (e nel nostro paese, in quel tempo, ignorato o disprezzato o vietato), andava cercando, nei centri attivi del mondo, l'arte moderna; legando i problemi e le esperienze al senso della libertà, non come difesa o protesta di fronte alla tirannide nostrana, ma come senso e indirizzo di una nuova esistenza, di una vera autonomia dell'uomo. Come era verde il nostro giardino materno, in quegli anni; e puri i pensieri, e lunghi i giorni, e azzurre le montagne! E come le scoperte quotidiane, e le lotte, e i pericoli, ci parevano naturali e necessari; e si realizzavano con la semplicità e l'impeto felice con cui scorre nelle vene il sangue giovanile; avvolte come in una certezza, in una potenza senza limiti, e insieme nella dolcezza di una mozartiana armonia! Lelle fanciulla, con lo spontaneo orrore dell'eccessivo, dell'assurdo, del violento e del mostruoso, respirava e assimilava questa aria nativa e giovane, di una morale in atto, che cercava di unire tutti i valori e le esperienze, senza contraddizione, e poneva come base necessaria dell'unità dell'uomo (e della pittura), la libertà.


Questo ambiente vitale, questo particolare carattere di cultura, trovava la sua forma pittorica in un modo di realismo assoluto, che negava ogni astrattismo e ogni naturalismo veristico. Ed è questo indirizzo iniziale, mai smentito, che ha dato forse a Lelle Sacerdoti una prima e vaga intuizione formale, una immagine; e questa immagine Lelle ha mantenuto in sé, e sviluppato, in modi pensosi, e aperti, e fiduciosi, in tanti anni: portandovi sempre più in un suo carattere profondamente affettuoso per le cose, per gli aspetti del mondo, per gli elementi stessi del colore e della forma, mai contradditori né identici a quegli aspetti: un racconto di cose amate, che, per virtù d'amore, diventano, senza intellettualismi né sentimentalismi, non più cose, ma valori. Sono i paesaggi pazienti del cuore, la vecchia casa di Alassio, gli olivi e i cipressi dell'infanzia, e il ricordo poetico del padre, e lo sguardo della madre, e le terre meravigliose del paese napoletano, e i figli, e gli oggetti familiari. In essi c'è una persona, una storia e una unità armonica. Mi pare (se, come credo, non mi fa velo l'affetto fraterno), che questo basti, e che possa dire, a tutti, qualcosa. Che questa cosa sia una cosa vera, giudichi ora la critica e il pubblico.


CARLO LEVI